Sguardi sulla storia, letture di eventi attraverso la Parola, perché la creatività di Dio possa essere riconosciuta e accolta come comunicazione continua di bellezza che genera e rigenera. Una raccolta di pensieri che offre consolazione, abiti nuovi, percorsi di grata consapevolezza.
Misericordia, abito… Parole semplici; eppure, portatrici di infiniti volti, molteplici storie, come la mia, come la tua. Misericordia: la Scrittura è intrisa di questa espressione, ogni pagina gronda della sua presenza. Il testo ebraico per esprimerla in tutta la sua possibile grandezza, bellezza, intensità usa ben due espressioni, una più maschile – hesed– e una più femminile – rahamim. Vorrei per un attimo entrare nel mistero racchiuso di questa parola. Formata dai termini rehem (utero) e mayim (acque) rahamim parla in realtà di acque matriciali, di un grembo, quello di Dio, in cui ciascuno di noi viene continuamente ed è eternamente generato. Per rafforzare questa esperienza di generazione il vocabolo rahamim è posto al plurale: il nostro Dio è il Dio degli uteri. In Lui e per Lui la vita di ogni suo figlio non viene mai meno, anche quando attraversa le stagioni oscure dell’inverno, tempo in cui sembra che nulla stia crescendo nel campo coperto da fitte nebbie o da moltitudini di acque.
Mentre scrivo, fuori dal monastero qui a Ravenna a pochi km di distanza, molte famiglie stanno lottando contro le ondate di acqua melmosa che ha sommerso non solo le loro case, ma la loro stessa esistenza. Il paesaggio è desolante, l’abisso della perdita è presente in tutte le sue sfumature. L’acqua che dovrebbe donare la vita ora mostra il suo volto di morte… Come non sentire una sensazione di abbattimento e impotenza? Come non dare voce alla paura più grande: che non esista alcun Dio della vita, almeno non qui, non ora? Mi fermo un attimo e con una certa fatica, prendo in mano il libro dei salmi che ritma la mia giornata di monaca e ritrovo lo stesso sentire, lo stesso domandare aperto, lo stesso sapore della lotta quotidiana tra il significato di quello che si desidera e il significato di quello che si ha. L’inverno potrà trasformarsi ancora in primavera? Le tenebre possono divenire incubatrice di luce? “…Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente… cresce lungo il cammino il suo vigore… “(Sal 83,7-8) C’è una bellezza nelle valli oscure dell’esistenza. È chiamata speranza. Talvolta, di fronte al Dio della Vita, la più grande prova di fede che possiamo offrire è, semplicemente, continuare a vivere, perché in Lui, creatore di ogni stagione “viviamo e siamo” (At 17,28) anche fautori del nostro destino.
Il Dio degli uteri non manipola la nostra vita, semplicemente ce la dona. Il Dio degli uteri non ci lascia in balia dei nostri errori, ma continuamente apre possibilità altre. Sa che per diventare figli svezzati occorre far pace con la realtà e prendere coscienza della propria unicità. Sa che per crescere ci vuole del tempo. Ecco allora un abito per il cammino, un abito per la vita: “Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì”. (Gen. 3,21). Poi li lasciò andare perché non provassero vergogna davanti a Lui. Poi li lasciò andare rivestiti della Sua misericordia, rahamim.
A proposito di veste e di cammino in esilio, mi viene alla mente un testo afghano della scrittrice Parwana Fayyaz:
“…. Sulla strada verso l’esilio, mia madre aveva con sé i nostri piccoli piedi
e nostre piccole mani, la sua scatola di aghi da cucito e la cucitrice…
Muovendoci tra stanze in affitto, il tessuto divenne per lei una terra familiare.
Aperta la scatola, la cucitrice posata sul pavimento, confezionava vestiti diversi per colore e consistenza.
Kabul le diede il velluto di ogni colore – scelse i toni del fegato e dell’oceano, bordeaux e lapislazzuli.
Il Pakistan le diede il raso, in giallo e arancio, preferì qualcosa color cipolla.
L’India le diede il cotone, sia spesso che sottile, e lei ne scelse un tipo di media consistenza.
Un anno imparò a filare la lana grezza: Con il denaro guadagnato, comprò seta.
Aspettava. Aspettavo.
Finché la pelle dura dei suoi polpastrelli non si ammorbidì e poté maneggiare quella seta.
Allora fece abiti per le sue tre figlie, Parwana, Shabnam e Gohar, e i colori erano
pistacchio, vermiglio e verde acqua.
Ogni punto del suo ago riportava in vita
gli stili eleganti della giovinezza e l’orgoglio
di una madre afghana, anche in esilio”.
Una donna che cuce. Una madre che cuce. Le stoffe che usa le ha raccolte mentre si sposta da un paese all’altro. Sono gli anni Novanta, la guerra civile è esplosa, i talebani guadagnano terreno. La macchina da cucito è tutto ciò che questa donna porta con sé nella fuga dall’Afghanistan. Per le sue tre figlie questa madre confeziona abiti assemblati dagli scampoli trovati per la via: sono il simbolo della sua capacità di trasformare il caos in vita e bellezza.
Davanti alla commuovente immagine di questa semplice e coraggiosa donna che confeziona abiti per la dignità delle sue figlie, non posso far altre che pensare a Maria: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto…” (Lc. 2,7). Anche lei sperimenta l’esilio, la lontananza dal proprio paese di origine, Anche lei tesse le fasce per quel Figlio senza casa. È un abito per l’Incarnazione. È un abito per accompagnare il Suo cammino in questa vita tutta umana. Specchio del Dio degli uteri, la Madre non continuerà forse a tessere “fasce” di misericordia anche per ciascuno, ciascuna di noi, per ogni giorno di vita, per tornare a non più vergognarci difronte al Tu che ci sta davanti? Non sarà un ritrovare l’eden perduto, ma il dono di nuovo inizio segnato anche da perdite, separazioni, non solo da persone che amiamo, ma anche dai nostri sogni romantici, dalle aspirazioni impossibili, dalle illusioni di libertà e potere, dalle illusioni di sicurezza e relazioni rassicuranti, dalle… Allora potremo, come il Cristo toglierci le “fasce” tessute dalla misericordia lasciando spazio alla nudità-vulnerabilità dell’amore vero, inclusivo di ogni aspetto dell’altro, dell’Altro a partire dal proprio essere più vero e autentico.
Sr M. Elisabetta del Volto Santo