Se c’è una persona che nella vita pensava di non sposarsi quella ero io. Una scelta troppo grande per me, sapevo che nella scala delle scelte difficili da mantenere nel tempo, il matrimonio, così come tutte le altre scelte vocazionali, rappresentano il gradino più alto.
Ho sempre visto questo tipo di scelte come la risposta alla domanda: cosa voglio fare da grande? Ed io a questa domanda non ho mai saputo cosa rispondere, forse perché mi piace darmi la possibilità di fare cose sempre nuove. Dio, però, mi stava chiedendo di rispondere alla domanda chi vuoi essere? non che vuoi fare? E io, certamente, non avrei mai risposto, una donna sposata! per quanto nel cassetto più intimo del mio cuore avrei tanto voluto. Forse è per questo che ho impiegato dieci anni della mia vita a chiedermi quale fosse la strada che Dio aveva tracciato per me, quale sentiero mi avesse riservato. Conoscevo fin troppo bene il dolore di una promessa spezzata, ho imparato a riconoscerlo nel cuore delle persone fin da piccola, per questo motivo mai mi sarei permessa un errore di valutazione, né avrei permesso di essere io la scelta sbagliata per qualcuno.
In dieci anni di sentieri scoscesi, sentieri in alta quota, punti di partenza ripetuti a giorni alterni, Dio aveva fatto suo quel mio desiderio nascosto che nel mentre era diventato nostro.
Dio aspettava il suo si, di questo sono certa, aspettava il mio chiaro si in questo progetto: io il mio si lo ricordo bene di averlo detto passeggiando nei boschi di La Verna. I si dovrebbero essere gridati a gran voce, pensavo tra me e me, ma a me quel si faceva tanta paura. Lo ricordo fragile ed esile e ricordo proprio di aver detto nel mio cuore che se Dio volva questo per me, per noi, allora si, ma io non sapevo proprio da dove partire. Dio invece aveva già tutto per iniziare.
Ci ha donato fratelli e sorelle pronti a pregare per noi, ci ha tenuti per mano camminando con noi nelle incertezze e tante volte consolati tra le sue mani quando stanchi arrivavamo da lui. E’ stato l’unico a fidarsi del nostro si, ancor prima di noi, forse perché più che nostro era suo e ne conosceva ogni sfumatura.
Non ci ha fatto immaginare niente, ma quel giorno, in cui il sì all’altare ha determinato un nuovo inizio, ci ha donato tutto e molto di più, inondandoci di una grazia sconosciuta. Sentivamo il cielo sopra le nostre teste aperto per fare festa con noi, ma più di ogni altra cosa ha cambiato il nostro sguardo sul mondo. Ci ha pensati insieme, il nostro Dio, non sappiamo neanche noi il perché, ma continuiamo a lasciare aperta la porta del cuore, perché proprio ora che pensavamo di aver raggiunto la vetta, si apre davanti a noi un’intera valle da esplorare. Allora quali sentieri prendere? Quale andatura tenere? Non abbiamo risposte, ma se Dio ci ha donato una felicità così grande cosa potrà riservare per noi in futuro se non maggiori grazie e infinite felicità?
Oh, com’erano diverse le cose rispetto al passato! Certo, ogni mattina mi sedevo alla scrivania piena di paura. Ero come un puntino minuscolo in uno spazio infinito – da questa immensità sarebbe arrivato qualcosa da afferrare? Dopo un poco era come se sorgesse la luce. Ero, per lo meno, in grado di formulare la domanda e trovavo delle vie per condurla a fondo… uno sconosciuto sentimento di felicità mi invadeva[1]. Così Edith Stein descriveva la sua ricerca di risposte al problema dell’entropatia. Le sue parole mi risuonano familiari, come se potessero descrivere ogni tipo di ricerca: io mi sono sentita puntino che riceve forza e luce per aver cercato sinceramente la volontà di Dio, i suoi sogni per me. E adesso… siamo due puntini, invasi da questo sconosciuto sentimento di felicità che dilata gli orizzonti: forti di un’esperienza che ci incoraggia a procedere con speranza in una vita tutta da esplorare.
Valentina D’Ascenzi, T.O.C. O.Carm.
[1] Cfr. Edith Stein, Dalla vita di una famiglia ebrea, Città Nuova-Ed. O.C.D., Roma 2007, 440.