L’uomo cerca insistentemente per trovare o ritrovare qualcuno o qualcosa: per scoprire, sapere, conoscere, come se, insieme alla curiosità, una forte nostalgia stimolasse la ricerca. Nostalgia di una bellezza che non abbiamo mai visto nel suo massimo splendore, ma della quale percepiamo tracce e riflessi. Nostalgia di pace, amore, gioia. E il desiderio che portiamo dentro sembra insaziabile. Esploriamo il nostro intimo ponendoci domande e ci ritroviamo ad ascoltare Qualcuno che ci parla. Lo fa attraverso la storia, attraverso una foglia mossa dal vento, attraverso lo sguardo di una persona. Scintille di una bellezza che attrae irresistibilmente e apre il cuore alla speranza. Quale speranza? Ci guardiamo intorno e verifichiamo che ogni generazione si trova a prendere decisioni nuove proprio in questa ricerca di verità, di qualcosa che le corrisponda oggi, con tutte le fragilità e i rischi delle proprie scelte. Per continuare a sperare in un futuro migliore, l’uomo deve riconquistare libertà, custodire dignità, cercare di non restringere gli orizzonti. Vive di speranze: obiettivi che costituiscono scadenze, tappe. Nella misura in cui riesce ad accogliere e sviluppare la forza dell’amore che redime, la vita in abbondanza, un amore che supera la morte e resta in eterno, dalle piccole speranze arriva alla cura della speranza che salva. Siamo chiamati tutti ad uscire dall’illusione di poter gestire interamente la nostra vita, per entrare nella realtà di “amministratori”, che investono i talenti ricevuti e hanno energia a disposizione per il completamento della loro missione. Per essere sempre più liberi, per vivere la speranza che è certezza senza limitazioni di tempo, dobbiamo riconoscerci “dipendenti” da Qualcuno e dipendenti gli uni dagli altri in un legame amoroso, che non rende prigionieri e non fa mancare nulla a nessuno. È la meravigliosa e consolante circolarità cui naturalmente tendiamo, e che possiamo vivere già ora, seppure con fatica. La speranza ci insegna ad accettare le nostre imperfezioni, le imperfezioni dei fratelli e del mondo in cui viviamo, la pazienza di crescere. Come possiamo essere testimoni e profeti di speranza oggi? Ognuno proverà a rispondere: noi proviamo a farlo da carmelitane, anche particolarmente responsabili, per scelta di vita, nel cercare forme a servizio di questa specifica missione. Sfogliando antiche pagine della nostra tradizione leggiamo: “Vorremmo che tutti i carmelitani fossero specchi, lampade, fiaccole accese e stelle splendenti per illuminare e guidare coloro che vanno per il mondo; e anche con le preghiere parlassero con Dio, si unissero a lui con meditazioni e pur stando nella carne il loro spirito vivesse in cielo…” (G.B. Rossi – Constitutionum compendium). Cerchiamo tutti di partire sempre dalla realtà di noi stessi, con onestà e linearità e di praticare l’esercizio del desiderio. Nella preghiera tale desiderio prende forma coinvolgendo tutta la persona. Nasce nel segreto di una stanza senza uscire fuori dalla storia. Sollevando velo dopo velo, si distinguono linee e dettagli di ciò che accade. La preghiera liturgica, la preghiera comunitaria, insieme ai nostri Santi da cui riceviamo preziose eredità di esperienza, sostengono la rettitudine di ogni nostro cammino. Anche il confronto salva. Un confronto che aiuta l’apertura alla compassione, uno dei frutti della preghiera. La preghiera è vita quando confluisce in un’azione che ha radici nella contemplazione. “Ogni agire serio e retto dell’uomo è speranza in atto”, leggiamo nella Lettera enciclica Spe salvi (Benedetto XVI – 2007). “Come l’agire, anche la sofferenza fa parte dell’esistenza umana. Essa deriva, da una parte, dalla nostra finitezza, dall’altra, dalla massa di colpa che, nel corso della storia, si è accumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile. Siamo chiamati ad alleviarla, secondo quanto giustizia e amore sollecitano, ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità. Questo potrebbe realizzarlo solo Dio: solo un Dio che personalmente entra nella storia facendosi uomo e soffre in essa” (Id.). Stiamo per celebrare nuovamente l’ingresso di Dio nella nostra storia: Dio abita già la nostra esistenza, ma il mistero celebrato rinnova la grazia dell’Incarnazione di Dio nella storia e chiede la nostra collaborazione perché la guarigione che ne viene sia più profonda possibile. Quando cerchiamo di descrivere le brezze di consolazione che sperimentiamo nella nostra vita, narriamo, si, le nostre esperienze, anche quelle apparentemente più semplici, oppure esperienze di chi si confida e cerca l’amore di cui ha bisogno, specie se si riconosce peccatore ferito, ma questo avviene nel passaggio di accoglienza profonda, che cerchiamo di imparare con la pratica. “Accettare l’altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore” (Id.). Un ultimo cenno a questo tempo liturgico che ci proietta in modo particolare nell’essenzialità del nostro cammino. “Anche il « sì » all’amore è fonte di sofferenza, perché l’amore esige sempre espropriazioni del mio io, nelle quali mi lascio potare e ferire. L’amore non può affatto esistere senza questa rinuncia anche dolorosa a me stesso, altrimenti diventa puro egoismo e, con ciò, annulla sé stesso come tale” (Id.). Ce lo insegna bene Maria con il suo “Eccomi” ripetuto dall’Annuncio dell’angelo alla Croce. Uniamo quindi i nostri “si” al suo e tra noi, e cerchiamo di guardare tutto con lo sguardo di Dio.
Sr M. Daniela del Buon Pastore