In che senso coloro che sono nel pianto, che in questo caso indica una sofferenza, possono sentirsi beati? Un lutto, una malattia, una relazione che si rompe, un distacco affettivo, sono solo alcune situazioni in cui sperimentiamo una grande sofferenza e il nostro limite di creature. Questo dolore il più delle volte si esprime con le lacrime. “Nella saggezza c’è sempre il dolore e la conoscenza delle cose conduce al pianto.” (Cit. Teofane il Greco tratta dal film Andrej Rublëv di A. Tarkovskij 1966) Le lacrime sono dunque un linguaggio espressivo, un linguaggio che da voce a ciò che è insito nel nostro intimo e rivelano anche qualcosa di profondamente divino. Non abbiamo una risposta certa al perché della sofferenza ma sappiamo che c’è uno sguardo posato su di noi: Qualcuno che accoglie le nostre lacrime. “I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime: non sono forse scritte nel tuo libro?” (Sal 56,9) Le nostre lacrime non rimangono inascoltate agli occhi del nostro Creatore, diventano preghiera. Qual è allora la buona notizia che Gesù vuole portare in questo Vangelo? È Lui la buona notizia…l’uomo Gesù che si è lasciato toccare dal dolore altrui, che si è lasciato ferire dal nostro peccato fino al sacrificio estremo della morte in croce. Nella Bibbia, Gesù piange alla vista della città di Gerusalemme (Cfr Lc 19, 41-42), si commuove profondamente e piange per la morte del suo amico Lazzaro (Cfr Gv 11, 32-36) ed infine, nell’agonia del Getsemani – doveanche i suoi discepoli più intimi lo lasciano solo – manifesta la sua tristezza e angoscia. (Cfr Mt 26, 36-46; Lc 14, 32, 42; Eb 5,7) In quelle lacrime c’è tutta la sua umanità, tutta la sua piena partecipazione all’essenza dell’uomo. Quando piangiamo, quando sentiamo mancarci le forze, sappiamo che in quel momento siamo con il nostro Signore: Cristo è con noi! Il messaggio, dunque, che possiamo cogliere da questa beatitudine evangelica è che io che sono nel pianto sarò consolato se ci sarà qualcuno che accoglierà le mie lacrime. E chi può accogliere le lacrime meglio di Cristo? Cristo c’è, però tornerà anche alla fine dei tempi. Non c’è nel modo pieno in cui ci sarà alla fine. Lo sposo di ciascuno di noi è presente ma è assente. E infatti “possonoforse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno” (Mt 9,15).
Ritorna in mente, pensando alle lacrime, questo lutto di cui ci parla Gesù. Adesso è tempo di presenza e assenza dello sposo. Ma cosa significa che lo sposo è presente eppure assente? Cosa significa per unamonaca o per ogni cristiano? È presente nel momento in cui piango. Se piango vuol dire che sento che c’è qualcosa o qualcuno che mi manca. Non sono autosufficiente. Sono povera rispetto allo spirito, proprio come mi invita a essere la beatitudine precedente.
Se pensassi di essere io al centro del mondo non sarei povera e non piangerei alcuna mancanza. Quindi non avrei bisogno di consolazione. Mentre, se piango, mi manca lo sposo, lo attendo, vigilo fino al suo ritorno pieno. E la monaca è proprio colei che vigila. Forse la monaca è davvero colei che è sempre nel pianto. Ma ogni persona vigila, perché Cristo viene nella vita di ciascuno di noi. Il timore di Dio non è paura. Ma è rendermi conto che Dio potrebbe passare adesso e io potrei perdere il treno, potrei non accorgermi. Però lo sposo è già risorto. E quindi c’è, anche se in forma non definitiva. E dove c’è per me? Almeno in tre momenti mi pare. C’è nella preghiera. In quella che viviamo insieme nella Santa Messa principalmente e poi in quella personale. Ogni volta che vivo anche solo la preghiera personale, anche solo un Padre nostro come un cercare lo sposo, un tentare di udire la sua voce… sono nel pianto. Ogni volta che vivo la preghiera personale come un atto egoistico, senza cercare la volontà di Dio, basto a me stessa e non sono consolata. E ancora nella lettura con gli occhi di Dio degli eventi che accadono a me nella giornata, nel lavoro, in monastero. Ogni volta che vedo il caso negli eventi o che considero il tempo come mio, come frutto del mio dominio, non cerco lo sposo. Se invece cerco di scrutare lo sposo nei segni dei tempi, nella storia, allora sono nel pianto. È nell’incontro con i fratelli e con le sorelle, perché fratello e sorella sono manifestazione dello sposo. Ogni gesto di tenerezza e di affetto e di amore nei confronti del fratello e della sorella è vedere in loro lo sposo, è riconoscere Cristo. Ogni gesto di freddezza, di dominio, di violazione della sacralità del fratello e della sorella è un’offesa di fronte a Dio, perché allora non sono nel pianto, non vi riconosco in loro la presenza dello sposo. Ognuno di noi può essere quella persona che accoglie le lacrime dell’altro, oppure al contrario ricevere il dono della sua presenza. Nel dolore, anche il silenzio di un abbraccio, una semplice carezza, la mano di un altro, la mano dell’Altro, che è Gesù, che stringe la nostra; tutto questo può liberare il nostro pianto, avvertiamo che qualcosa ci sta mancando ma nello stesso tempo siamo consolati da questa presenza amichevole. Anche nella sofferenza può esserci una via di comunione, una via di umanizzazione che sta nell’amarsi accogliendo il proprio dolore e nell’amare il fratello e la sorella che soffrono. È sempre l’amore che salva! “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio.” (2 Cor 1,3-5)
Debora, nov. carm.