“Nonno, nonno, ma hai capito? È morto con una puntura di veleno!”. Questa l’esclamazione di un bambino che al termine della celebrazione per la canonizzazione di 10 nuovi Santi, tra i quali Titus Brandsma, martire carmelitano, aveva premura di esprimere il suo dispiacere per un fatto tanto crudele. La sua attenzione si è fermata proprio sulla storia di Titus, che desideriamo raccontare attraverso le testimonianze di coloro che lo hanno conosciuto. Più volte abbiamo citato il suo pensiero, il suo percorso di vita, la sua battaglia per la Verità: non è possibile tanto ardire senza il sostegno di una appassionata esperienza di Dio. Non è possibile morire martire se non dopo aver vissuto una vita alla presenza del Signore. E proprio su questa unione particolare con Lui nelle cose più ordinarie della vita, non mancano le testimonianze di familiari e confratelli. Sfogliando le pagine della relazione della dr.ssa Giovanna Brizi, Postulatrice Generale dell’Ordine dei Carmelitani, per un breve ritratto di Titus attraverso i documenti processuali, scopriamo che l’atteggiamento contemplativo così ben custodito fin dall’infanzia, è spiegato da Titus stesso con questa frase pronunciata nel ricordare alla sorella Gatske de Boer Brandsma, la sua prima comunione:
“Se sei occupato col Signore, non puoi mica pensare a qualcos’altro” (testimonianza del confratello p. Borromeus Tiecke) San Titus trovava nella meditazione l’alimento per crescere nella capacità di amare, occupandosi ma non preoccupandosi delle cose del mondo, scoprendo Dio in tutte le relazioni, in tutte le cose: un vero “mistico della quotidianità”. Il confratello p. Christophorus Verhollen, lo descrive così:
«Mi sorprendeva che egli dalle sue intense occupazioni potesse passare, con facilità evidente, alla preghiera. Aveva un’abilità speciale di ricondurre tutto a Dio. Non si risparmiava fatiche quando altri venivano a trovarlo, non perdeva mai la pazienza: non mostrava mai di non avere tempo o che la visita fosse importuna, ma sedeva e ascoltava tranquillamente. Il suo motto preferito era “per dare, nessuno è mai diventato povero”. Era semplicemente sconcertante il gran numero di persone che veniva da lui per un consiglio o un aiuto, per le cose più disparate, importanti o futili». E anche il 15 maggio scorso, in P.zza S. Pietro, abbiamo avuto la percezione della sua premura per le persone ivi raccolte in preghiera: confratelli e consorelle carmelitane hanno sperimentato in modo particolare la sua carezza e “incrociato” il suo sguardo gentile posato sulla Famiglia religiosa. Ci è venuto incontro, trasfigurato, con i suoi tratti peculiari sublimati e riconoscibili e nessuno di noi ha lasciato quella piazza, privo di nuovi doni ottenuti per sua intercessione. «La sua servizievolezza sempre pronta e serena, era la più appariscente e la più attraente delle sue buone qualità. Per lui non faceva nessuna differenza se l’aiuto gli veniva chiesto nel campo spirituale o nel campo temporale. Anche nel secondo caso sapeva, mediante una semplice parola o anche con la sua bontà disinteressata e gentile, ottenere un effetto spirituale… come priore, diceva ai suoi confratelli: “Dobbiamo adoperarci affinché il nostro amore per il prossimo diventi proverbiale”». Anche la sua sensibilità mariana era proverbiale: non sapeva parlare senza nominare la Madonna.
Se le testimonianze sulla sua vita quotidiana tra convento, università di Nimega e impegno giornalistico sono toccanti, ancor più significative sono quelle dei compagni di prigionia nel campo di concentramento. «Non mi sono mai accorto di alcun segno di sentimenti di vendetta nei confronti dei nemici e guardiani. Ciò dava tanto più nell’occhio dato che noi tutti stavamo trangugiando odio, per il trattamento al quale eravamo sottoposti: egli veniva incontro ai guardiani ringhiosi col volto raggiante… aveva degli occhi estremamente gentili ed una grande letizia. La maniera colla quale accoglieva chiunque con un sorriso cordiale e comprensivo, ridava calore alle anime raggelate. Era buono con tutti, non credo che abbia chiesto a qualcuno quale fosse la sua Fede; per lui erano tutti compagni di prigionia. La sua grande forza d’animo e la sua grande letizia dimostrano una grande fiducia in Dio. Rimaneva sempre inalterato in questo ambiente snervante…molto mite, modesto e semplice ma anche straordinariamente forte e coraggioso. …Ho visto migliaia di prigionieri, ma egli ha fatto su di me l’impressione più profonda. Quello che faceva superava le capacità di qualunque uomo normale» (Fogteloo Anne Sape).
«Il suo amore per il prossimo era universale e si estendeva sia ai cattolici, sia ai non cattolici, sia ai comunisti: predicava, confessava e pregava con i prigionieri. Egli lo faceva benché ogni forma di cura delle anime fosse assolutamente vietata e passibile di punizione. Era l’uomo più affabile del campo e accessibile a tutti, curava gli ammalati nella baracca: li confortava e rendeva loro tanti piccoli servigi, nonostante fosse più bisognoso di aiuto degli altri. Era pronto a perdonare e non parlava mai del male ricevuto da altri: non ho mai sentito Tito parlar male, neppure dei tedeschi. Anche nei nemici egli sapeva scoprire qualche cosa di buono» (Rev. Giovanni Aalders, ad Amersfort).
“Nonno, anch’io voglio avere gli occhi gentili. Ma quando si hanno gli occhi gentili, diventa gentile anche quello che guardiamo?”
Sr M. Daniela del Buon Pastore