Dio largheggia.
Eppure a volte ci sentiamo come immobilizzati a un ingorgo, in mezzo a tantissima gente, e iniziamo a spintonare nervosamente e a scavalcare senza rispetto per arrivare primi. Il collo di bottiglia, espressione usata per definire alcune organizzazioni aziendali, il punto di assottigliamento che concentra il lavoro su un’unica figura, rallenta la possibilità di avanzare speditamente, e tutti restiamo in attesa dietro il cunicolo, infastiditi, ingrossando la fila, disordinandola come tante macchine sull’autostrada ai caselli.
Oltre l’ingorgo, lo spazio è libero e ampio.
Quello spazio è Dio che largheggia infinitamente.
Ma tra le arterie viarie questo non è razionalmente comprensibile. Si vede il visibile, ciò che evoca l’inizio di altro e lo presentifica, ciò che decreta la fine e lo supera. E quindi si scalpita.
Sembriamo tanti dati informatici che è necessario trasferire da un disco fisico all’applicativo che li dovrà elaborare. Nel buffer i dati devono spesso stare fermi, attendere, pazientare.
In informatica il buffer è proprio la stazione di attesa man mano che vari dispositivi, tutti a velocità variabile, quali più lenti, quali più veloci, riescono a smaltire i dati interessati allo spooling, allo spostamento da un punto all’altro. Non sempre, infatti, è necessaria un’azione di spool immediata. Il metodo di transito informatico detto FIFO, indica che “il primo ad entrare è il primo ad uscire”. Ma quando non avviene così, è quindi quasi umano, logico, processuale, spintonarsi e sgomitare. L’imbottigliamento non piace a nessuno. L’attesa nemmeno. E non la si riesce a perdonare né a giustificare. Analisi della prestazione da parte dei profilatori: negativa. La RAM è più lenta della CPU. Non va bene. Non va proprio bene.
Eppure un motivo c’è, per quel rallentamento illogico. Ed è sempre quello: Dio largheggia, pur essendo proprio Lui, paradossalmente, il collo di bottiglia ostruente. È affetto da Hèsed, da Chesed, ohinoi. Ci attende sulla soglia a braccia aperte e al nostro arrivo ci vuole almeno concedere un abbraccio! Una fedeltà e una misericordia imbarazzanti, demodé. E lì che temporalmente la corsa si blocca, che si crea il fastidioso ingorgo. Lui non ci fa caso, noi creature quaggiù sì.
Per reazione, l’attesa del passaggio da un’area all’altra si tramuta in sudore, fatica, smania, inquietudine, rabbia persino. Perché un collo di bottiglia? Non sarebbe meglio trasferire tutto con un EIA RS-232, cioè una meccanica “porta seriale”? Perché non usare la tecnologia Dual-channel DDR/DDR2/DDDR3/DDR4? Niente nostalgie inconcludenti, c’è la tecnologia che ci supporta: usiamola, dimezziamo i tempi. È urgente giungere ad un appaesamento il più velocemente possibile. Vogliamo la dispensazione da quell’abbraccio, ci interessa solo uscire dalla bolgia e camminare nello slargo oltre il collo di bottiglia. Dio ingolfa, Dio è pietra d’inciampo con la sua imposizione di volerci abbracciare prima di lasciarci camminare liberi in una condizione umana diversa. Dio – che largheggia – invece ostruisce, pretendendo di rilasciarci un suo segnale affettuoso durante il trasferimento da un’esperienza all’altra. Non vogliamo restare di là, non vogliano passare con lentezza, non vogliamo abbracci superflui e obbligazioni: vogliamo solo azioni scattanti, arrivo facilitato e veloce, slargo, esperienze nuove, rapide, effetti immediati.
Nell’attesa, la nostra fedeltà si annoia, si smarrisce, devia. Ogni distrazione o rabbia malcelata, ci fa compiere giri tortuosi e ci fa giungere alla mèta ancora più in ritardo sulla tabella di marcia, perché non abbiamo mantenuto il punto focale dritto verso il miraggio bello dello slargo dopo l’imbottigliamento, né abbiamo avuto sufficiente pazienza per attendere di ricevere l’impressum al casello dell’affetto.
Dio invece resta lì, allarga le braccia e attende che ritorniamo in fila, senza più deflettere dalla direzione che ha disseminato di segnali pro nobis. Al nostro arrivo, non guarda se abbiamo curato skinkare e acconciatura, ma solo se abbiamo avuto la capacità di accettare il suo Amore. Non si preoccupa se abbiamo rispettato il planning degli impegni e spaccato il minuto, ma solo se abbiamo camminato e cercato e osservato e amato a nostra volta. Dio è lì e ci sorride, stringendoci forte. In quel momento, abbracciati a Lui, al collo di bottiglia tanto vilipeso, timorosi ma rinfrancati, il nostro tergiversare, il nostro indegno perditempo, tira la linea e svela l’esorbitanza della sua entità. È lì, scoprendoci degli attesi tanto amati e mille volte perdonati, mentre ci vergogniamo da paura e non riusciamo nemmeno a guardarlo negli occhi, che comprendiamo. Hèsed, Chesed… Sì, proprio di quello Dio è affetto. Non ci ha venduti come schiavi, a fronte della nostra spudorata incostanza, né ci ha incatenati come un padrone per ottenere la produzione che si aspettava da noi. Ci ha attesi anche stavolta per deporci nello slargo che da sempre ci ha lasciato in eredità, in una larghezza d’amore sconfinata che non ha misure umane. È uno spazio-temporale concesso interamente a nostro usufrutto ab eterno per mettere a talento ciò che siamo, ciò che possiamo, ciò che maturiamo. Così, mentre attraversiamo la strettoia del collo di bottiglia lasciandoci misurare nell’Amore, la brezza della sera diventa più calda e confortevole, l’impazienza cede il posto alla vividezza del paesaggio che Dio ci assegna, e ogni cosa si ricompone creando finalmente con chiarezza il disegno della nostra esistenza, come certe delicate infiorate sui sagrati dei Suoi suoli.
Tìndara Rasi