La mia anima ha estensione e profondità, può essere riempita da qualcosa, qualcosa può penetrare in essa. In essa io sono a casa, in modo totalmente diverso da come lo sono nel mio corpo vivente. (E. Stein, La struttura della persona umana, tr.it. di M. D’Ambra, Città Nuova, Roma 2000, 132)
Guardo i miei piedi passo dopo passo, mentre procedo su terreni sconnessi. Ho timore di inciampare, ma poi, raggiunta la meta, mi siedo, mi guardo intorno e cerco di recuperare ogni angolo di paesaggio, ripercorrendo il tragitto con lo sguardo. Tra i fili d’erba “pettinati” da un vento leggero che sembra rispettarne la fragilità, sembrano risuonare le parole che San Pietro ci ha consegnato nella sua prima lettera: ricordano il processo di santificazione dell’anima attraverso l’obbedienza alla verità. Da quell’obbedienza, sgorgano sincerità e intensità di amore fraterno, reso possibile dalla rigenerazione che avviene in noi nella Parola di Dio, seme incorruttibile. Soprattutto, però, osservando la terra che la primavera ammanta di verde brillante, sento che tutti i mortali sono come l’erba e ogni loro splendore è come fiore d’erba. L’erba inaridisce, i fiori cadono. (Cfr 1 Pt 1,22-24) Nella fatica dell’imprevedibile ho la sensazione di tessere con fili di ragnatela i miei giorni: cresce l’attenzione per non strappare ciò che è fragile, per renderlo ancora più prezioso e straordinario. Penso e ripenso: mi sembra che il Signore stia guidando questi pensieri per farmi arrivare al dunque di ogni cosa. Mi lascio condurre da Lui, cercando di non opporgli resistenza e mi ri-comprendo nella luce pasquale che già splende. Fatico nel fare silenzio: guerre dentro, guerre fuori, le urla ingoiano il futuro e rilasciano tossine nel presente. Eppure, la luce pasquale c’è. La Parola del Signore rimane in eterno. E questa è la parola del Vangelo che vi è stato annunziato. (1 Pt 1, 25) Sono risorta con Cristo, ma ancora il processo non è completo e ne sento il peso. Sono un filo d’erba curvo. Siamo tutti risorti con Cristo, eppure, non sembrerebbe. Spesso, un campo di fili d’erba calpestati. Quel peso c’è ed è con esso che noi impariamo a vivere ogni situazione con fede. Quella luce pasquale, sono chiamata a scoprirla, a trattenerla e a portarla ovunque come esperienza di vita reale. Una Pasqua vissuta ogni giorno con il mio Signore. Ci sono anche le urla, chi può negarlo? Sono assordanti, ma non riescono a coprire i sussurri di Dio che accarezzano e “pettinano” i campi e aiutano a comprendere le grida dell’uomo vecchio che attende liberazione. Quell’uomo lì, ha paura di tutto. “Signore, passi da me questo calice, ma sia fatta la tua volontà, perché sono certa che, confidando in te, nulla mi mancherà, né mancherà a nessun’altro”. Resto seduta, a contatto con la terra e con la mia parte di terra. Anche ciò che sembrava limpido ai miei occhi o che aveva la presunzione di sembrare tale, si intorbida, come quando il deposito sul fondo si alza sollecitato dalle correnti e finalmente si fa vedere. Cosa c’è che non va bene in me? Mi rendo conto dell’urgenza di filtrare l’acqua infecciata e per farlo, servono trame di tessuto ben fitte, non intrecci di ragnatela. E poi è necessaria la pazienza di vedere acqua pura goccia a goccia. Obbedienza alla verità, questo intreccio fitto di fibre. È vero che la coscienza della propria impurità crea turbamento: ed è in quei momenti di lucida consapevolezza che Dio fa percepire più intensamente la sua presenza sanante, sta a noi, a me accoglierla perché Lui possa santificare in me il suo nome e predispormi ad essere vera adoratrice della sua santità, vera figlia confidente che cerca e ama la Sua volontà. E allora… Eccomi nuovamente Signore! Eccomi, non voglio nascondermi, ripiegarmi su me stessa, come se nella mia vita nulla fosse cambiato. Sento le urla? Il vortice della vita che non muore, diventi per me sollecitazione ulteriore per essere pienamente presente a te, a me stessa, al prossimo. Eccomi, ci sono Signore! Eccomi manda me, mandami come il mio stato di vita richiede e suggerisce lì dove le grida sono più forti, dove la sofferenza si fa disperazione. Ecco che la mia soggettività diventa unicità per il servizio del prossimo, che parte da una consapevolezza rinnovata di me, da un desiderio di imitare Colui che mi ama da sempre, che mi ha salvato. Ecco rinnovato, goccia a goccia, il desiderio di conformarmi al Suo modo di vivere. Unicità del mio io, con le responsabilità che ne conseguono. Imparo a portare la mia croce, imparo a portare il peso dell’altro. Mi curvo per l’altro. L’altro: volto che accende immediatamente e gratuitamente l’obbedienza. “Obbedienza agli altri”: come? Il vivere per l’altro sorge nell’io, in quell’io che si purifica lentamente e umilmente nell’obbedienza a sé stesso, al desiderio di Dio per lui. Io sono un desiderio di Dio, l’altro è un desiderio di Dio. E mentre immagino le gocce che lentamente il tessuto intriso e filtrante lascia cadere nel contenitore di creta che le raccoglie, mi predispongo all’ascolto profondo che non ha aspettative di reciprocità e procede senza indugio. Cresce l’apprensione di commettere qualunque violenza o usurpazione nei confronti dell’altro: nel pregiudizio, nel giudizio, nella non curanza. Non c’è niente di banale nella relazione tra i risorti con Cristo. Molti non sanno di essere risorti, il loro sguardo si ferma sulle piaghe di una carne ferita, come in alcuni momenti capita a me. Portare lo sguardo oltre, è una responsabilità strettamente connessa alla mia interiorità. È vero, l’affezione dell’uomo per il bene, lo rende vulnerabile alla sofferenza del mondo, ma perché perdere la speranza di una relazione che libera? Quel filo di ragnatela cambia consistenza, sì, e diventa filo per tessere reti, per renderci liberi ostaggi, gli uni degli altri. (Cfr Giorgio Nicola Copertino Interiorità e responsabilità, Ed. Carmelitane, Roma 2014, 336. 364-365). Gli ostaggi dell’amore sono liberi. Guardo nuovamente i miei piedi che riposano prima di riprendere il cammino: Gesù si è chinato per lavarli e mi invita a fare altrettanto con coloro che, tornando sulla via di casa, ritroverò ad aspettarmi. E con coloro che raggiungerò con una preghiera che è partecipazione al loro vissuto, trepidazione per il loro bene. Nella mia unicità di elezione, sono chiamata a vivere la responsabilità che precede la mia scelta. Rispondo della morte di altri, di qualunque tipo di morte, non ho scuse. La carità, amore senza concupiscenza, non nasce forse dalla giustizia? Non si intensifica in una ricerca instancabile di verità e libertà? (Cfr E. Levinas, Entre nous, 121-122, cit. in Interiorità e responsabilità, 347). E la pace? La pace deve essere la mia pace, in una relazione che parte da un io e va verso l’Altro, nel desiderio e nella bontà in cui l’io contemporaneamente si mantiene ed esiste senza egoismo (E. Levinas, Totalità e Infinito, 314, cit. in Interiorità e responsabilità, 372) Non servono tante parole, non serve raccontare storie, esperienze come “trofei” di vincitori o lacrime di sconfitti. L’urgenza è nella conversione del cuore da cui sgorga vita nuova. L’urgenza è farsi raggiungere dalla luce pasquale nella propria stoltezza, nel tempo favorevole, perché possa lasciare spazio alla sapienza del cuore.
Sr M. Daniela del Buon Pastore