Le note sostengono il canto corale del salmo 141, il cuore sussulta alle parole Tu conosci la strada che io percorro… Mi sento guardata amorevolmente. D’un tratto il mio sguardo si posa su una lacrima versata al canto dei versetti che descrivono lo stato d’animo del salmista e, in lui, di ogni uomo: Non c’è per me via di scampo, nessuno ha cura della mia vita. Improvvisamente quella frase e quell’emozione esternata e quasi rubata, mi coinvolgono e un lamento interiore discretamente si associa a quella sofferenza. La mia supplica si fa intensa: Strappa dal carcere la mia vita… Se mi sento guardata amorevolmente, cosa mi rende prigioniera? Forse la verità segreta della Croce, il timore del cambiamento, forse il peso della colpa. È vero che nessuno ha cura della mia vita? L’altro sta mettendo in questione qualcosa di me: l’Altro che mi parla nella preghiera, l’altro che osservo accanto a me. Non voglio distogliere lo sguardo da quel volto, me lo porto dentro, e al termine della preghiera, nel silenzio della cella, con la finestra aperta sul mondo circostante, mi metto in ascolto. Osservo tutto attraverso quella lacrima provocata dalla Parola, che diviene lente per cogliere le sfumature di sofferenza che percuotono l’uomo in diverse dimensioni: la vulnerabilità fisica, la sofferenza psichica, intima e relazionale, il suo dolore individuale, la sofferenza di gruppo e infine di interi popoli. Un gemito a volte flebile è emesso negli angoli del mondo, un gemito che confluisce nei gemiti e nei lamenti più esasperati: anche il fremito di una natura che attende liberazione, si rende portavoce di significativi messaggi. (Cfr Rm 8, 22) Sembra ridicolo, il piccolo gemito, quando si consumano tutt’intorno grandi tragedie. Ridicolo se è un lamento per l’ingiustizia della propria sorte, e che quindi tradisce la gratuità dell’amore, ricevuto e donato. Se davvero provo vergogna, non potrò desiderare più compensi per l’esercizio delle virtù. Forse dovrò rinunciare al desiderio di non soffrire per una malattia, per un’incomprensione, per un fallimento, per un passaggio di crescita. Perché, mediante la fede, Dio mi custodirà. Dio ha cura di me. Cosa c’è di mio in quella lacrima? E mente mi interrogo sul male subìto o agìto, mi guardo dentro e osservo fuori, il simbolo che fa pensare (espressione di P.Ricoeur). In questa stagione alberi spogli ondeggiano come braccia imploranti, verso un cielo spesso coperto di dense nubi: in linea d’aria, poco distanti, rami di acacia, legno imputrescibile con il quale – leggiamo nella Scrittura – fu costruita l’arca dell’alleanza, mostrano una corteccia rugosa che protegge il libro, dove scorre linfa elaborata. Ascolto il loro stormire, che a tratti si fa sibilo sottile. Le chiome sempre verdi dei cipressi che segnano il percorso verso il santuario, attraggono la mia attenzione e simbolicamente si pongono in armonia con quegli alberi spogli il cui legno non marcisce, come “segno eterno che a gloria del Signore, non scomparirà” (Cfr Is. 55,13). Legno prezioso, che rivestì il Tempio di Gerusalemme, il cipresso. (1 Re 5,22) Anch’esso “protegge” qualcosa di inestimabile valore. Tutto mi riporta a Dio che cerca l’uomo e offre un patto di amicizia perenne: alleanza, Legge, Presenza e chiome che rispondono oscillanti e protese nella gratitudine della vita. In tutte le sue stagioni. Ripenso a quel volto solcato dalla lacrima, volto in cui si propone l’infinito. Il mio sguardo cerca allora spazi aperti che intravedo tra fronde verdi e alberi spogli che ondeggiano: in lontananza, nei campi circostanti, cespugli di ginestre richiamano il riposo di un Elia sfinito nel deserto: “Egli si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra” (1Re 19,4). Il nostro cammino nel deserto, le nostre fatiche, le nostre presunzioni, le nostre illusioni, sono lì: e nel nostro accasciarci, finalmente consapevoli di limiti ignorati, avviene qualcosa. Ovunque il mio sguardo si posi, c’è un cerro: oltre i cipressi, oltre le acacie, i cerri disegnano il nostro paesaggio. Querce presso le quali il Signore ama rivelarsi: lo fece con Abramo, quando “attraversò il paese fino alla località di Sichem, presso la Quercia di More. Nel paese si trovavano allora i cananei. Il Signore apparve ad Abram e gli disse: “Alla Tua discendenza io darò questo paese” (Gn. 12,6); E ancora: “Il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno” (Gn. 18,1). Querce di More, segno di benedizione: querce di Mamre, luogo sacro di incontro, accoglienza e convivialità: querce di Cerreto? Ritorno a quella lacrima cui la natura risponde con movimenti e sibili, con colori e forme, evocando la Parola che Dio ci ha donato. Ecco, la sua rivelazione qui, richiama conversione. La speranza si rafforza sotto la ginestra, mentre ciò che non può marcire, si innalza come infinito verso l’eterno che già lo abbraccia. Il carcere apre le sbarre, le poche foglie rimaste ancora frementi ai venti invernali, cadranno, ormai non più utili alla vita dell’albero. “Il Signore poteva invitare gli altri ad essere attenti alla bellezza che c’è nel mondo, perché Egli stesso era in contatto continuo con la natura e le prestava un’attenzione piena di affetto e di stupore. Quando percorreva ogni angolo della sua terra, si fermava a contemplare la bellezza seminata dal Padre suo, e invitava i discepoli a cogliere nelle cose un messaggio divino: «Alzate i vostri occhi e guardate i campi…» (Gv 4,35)” (Laudato Si, VII, 97) Ecco, Signore, ho cercato di alzare gli occhi, ti ho cercato ovunque ti potessi trovare: nella Parola, nel volto dell’altro, in me stessa, in ciò che mi circonda. Ho guardato gli alberi che simboleggiano fiducia che non teme quando viene il caldo, non intristisce e non smette di produrre frutti (Cfr Ger 17, 7-8) e saggezza che parte dalla terra e guarda a Te. Ho visto in essi il simbolo della Croce dove ti sei “caricato delle nostre sofferenze, addossato i nostri dolori, trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità: per le tue piaghe noi siamo stati guariti” (Cfr Is 53, 4-5). E guardando tutto questo, ho sentito dentro di me la linfa della risurrezione: “le creature di questo mondo non ci si presentano più come una realtà meramente naturale, perché il Risorto le avvolge misteriosamente e le orienta a un destino di pienezza. Gli stessi fiori del campo e gli uccelli che Egli contemplò ammirato con i suoi occhi umani, ora sono pieni della sua presenza luminosa” (LS VII, 100).
Sr M. Daniela del Buon Pastore