Vivevano in solitudine, in grotte simili ad alveari, ove, come api, mellificavano il divin miele della dolcezza spirituale Cfr I. de Vitry, Historia Orientalis).
Così sono descritti i carmelitani nel XIII secolo, paragonati alle api laboriose che, in celle separate appartenenti ad un unico favo, lasciano traboccare la preziosità della loro preghiera nascosta. Lo abbiamo già ricordato insieme tante volte. Ancora oggi, eremo e cenobio, solitudine e fraternità si alternano come momenti del “due o più” riuniti nel nome di Gesù, che si rende presente: e tutto quello che è prodotto nel processo di trasformazione personale e comunitario del nettare della Parola di Dio, è offerto come nutrimento quotidiano per tutti. La cera del favo e degli opercoli che chiudono le celle esagonali piene di miele, è anch’essa simbolo di una laboriosità che santifica lo spazio e il tempo che ci sono donati. Nel silenzio del nostro laboratorio, in comunione con il creato, cerchiamo quindi di prolungare il prezioso lavoro delle api che tanto ci insegnano: la cera si lascia modellare e intagliare e rilascia un delicato profumo che ci raggiunge sensibilmente e spiritualmente, evocando il profumo di Cristo che si espande nella Chiesa. Durante la lavorazione, il pensiero è orientato alla Veglia delle veglie ma anche ai diversi luoghi nei quali questa sarà celebrata, lì dove il cero, impreziosito con scene bibliche che, dipinte con cura, richiamano il mistero centrale della nostra fede, sarà trovato acceso dalla stella del mattino. Non è difficile immaginare la bellezza di questa attività artigianale nella quale la reciprocità tra le sorelle che vi sono impegnate e quella dei committenti, si incontrano. Persone, comunità, si impegnano insieme per preparare la grande festa: come tante api che collaborano per liberare luce e portarla oltre i confini dell’alveare. Una santificazione che avviene perché l’ape si nutre di rugiada, produce il miele, ossia si nutre della rugiada celeste cioè dello Spirito Santo, genera la dolcezza del Paradiso (cfr. Jacopo da Varazze, Mariale aureo) Più il lavoro si intensifica in prossimità della Pasqua, più si fondono preghiera e ricordi, gratitudine e nuovo stupore: la memoria della nuova creazione, di Gesù che sfonda la porta e libera il cuore chiamato a resurrezione, del canto del preconio pasquale nei passaggi che descrivono la solenne liturgia del cero, quando la luce nuova ha già cominciato a diffondersi nella chiesa attraverso le tante fiammelle accese alla Fiamma che mai si spegne. Vita, incontro, conoscenza, verità, salvezza: lumen Christi, Deo gratias! La “seconda luce”, quella dell’Uomo-Dio, torna a far brillare ogni cosa. Tra attrezzi, pietre, acrilici e pennelli, la meditazione del mistero trova il suo spazio e apre “gli opercoli del cuore” facendo desiderare ancora di più il giorno della libertà dalla schiavitù della morte, della liberazione dal vortice del male che toglie dignità e spegne la vita. «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). Sì, in processione seguiamo quel cero acceso al fuoco nuovo, il cero che squarcia le tenebre, il cero che già nel giorno del nostro battesimo è stato posto al nostro fianco e che tornerà accanto a noi quando, chiusi gli occhi alla vita terrena, si ergerà a ricordare che Cristo ha sconfitto la morte. Sì, è questo ciò che incidendo il cero e scavando in profondità la forma della croce, risuona con forza dentro di noi, con l’energia del fuoco che trasforma. L’umiltà del materiale che consumandosi porta luce, riassume il mistero pasquale di Cristo che dona sé stesso per immergerci nella luce della vita vera. Anche attraverso l’imperfezione di pietre a volte non allineate, graffi provocati da uno strumento non ben guidato, quella luce passa e ricorda la fragilità della nostra condizione e il riscatto operato da Cristo.