L’amore, pieno compimento della legge (cfr Rm 13,10; Gal 5,14) è la realtà essenziale della vita di Cristo, come mostra il celebre inno alla carità: La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine (1Cor 13, 4-8).
Gesù prese l’asciugatoio e non lo ha più lasciato. Lo ha preso per asciugare i piedi degli apostoli, dopo averli loro lavati con una cura che non possiamo immaginare. Quell’asciugatoio non lo ha più lasciato, non è riportato nel vangelo che Egli lo abbia riposto da qualche parte. Dettaglio irrilevante? Forse no: può suggerire la necessità di un’attenzione continua a coloro dinanzi i quali sentiamo di doverci chinare e non soltanto nel momento in cui siamo chiamati a svolgere un servizio per loro, come se il nostro essere-per-altri, si limitasse a buone azioni da compiere. Il nostro essere-per-altri è dono di noi stessi per far vivere l’altro. Alla luce di questa verità insegnata da Cristo, l’immagine suggestiva dell’asciugatoio tenuto costantemente con noi come strumento per aver cura dell’altro, asciugando piedi e lacrime, apre il sipario su quanto concretamente deve cambiare nella nostra vita, da adesso.
Il gesto di Gesù che si dona fino in fondo nel mistero pasquale si comprende non tanto come esempio, ma più radicalmente come fondamento e condizione di possibilità di ogni amore del discepolo (cfr S. Zamboni, voce Amore in Diz. Teologia morale a cura di P. Benanti, F. Compagnoni, A. Fumagalli, G. Piana, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2019, 17). Partiamo da qui, e da discepoli, cerchiamo di esaminare i processi innescati da questa condivisione. Parto da me: resto scossa dalla consapevolezza della mia impurità. Cosa accade? Dio mi fa sentire la sua presenza purificante e sanante in modo più intenso e mi lascia libera di accoglierla. Quando io la accolgo e la vivo, Dio in me santifica il suo nome e io assomiglio sempre più al vero adoratore in Spirito e verità. A questo punto, ripenso a ciò che Dio ha fatto per me: Egli ha reso perfetto il Figlio attraverso la sofferenza, il sacrificio che è dono di sé ai fratelli. Cosa mi sta insegnando il Figlio? Un modo nuovo di agire? Sì, ma come conseguenza di un nuovo modo di essere partecipe dell’amore-dono del Padre e del Figlio nello Spirito Santo e nella missione del Figlio. Ecco qua. E qual è la missione? Cosa deve sollecitare il nostro essere-per-gli-altri? Che Dio sia tutto in tutti! Ce lo ricorda la Lumen Gentium al n° 36.
San Paolo, che dice, non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me, (Gal 2,20), sostenuto dalla grazia scrive alla comunità più disordinata – quella dei Corinzi – un elenco che descrive le sfumature della carità e con sfumature non si intende qualcosa ti tenue per “alleggerire” il significato che ogni definizione racchiude in sé stessa. Siamo chiamati a rispondere direttamente alla rivelazione con fede che diventa generativa nell’amore. Dio rivela sé stesso nel suo amore per noi, ci santifica nell’amore redentivo di Cristo e, nella storia personale di salvezza, ci libera progressivamente. Il kerigma – primo annuncio delle verità di fede – possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo, vi sono la vita comunitaria e l’impegno per altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata ripercussione morale il cui centro è la carità” (Evangelii Gaudium 24.11.2013.177)
Torniamo all’elenco di San Paolo: indica l’autentica risposta a questo “ben di Dio”. Nella fedeltà alla coscienza (e nella reciprocità di coscienze e rapporti interpersonali fedeli e creativi), accogliere l’urgenza caritativa, significa unirsi per cercare la verità e risolvere secondo verità i problemi.
“Lo Spirito è quella potenza interiore che armonizza il cuore dei credenti col cuore di Cristo e li muove ad amare i fratelli come li ha amati lui quando si è curvato a lavare i piedi dei discepoli e soprattutto quando ha donato la sua vita per tutti (Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, 25/12/2005, 19). Lo Spirito guida e permette di concretizzare una vita di:
- Carità magnanima, generosa. Ovvero? Una carità che è tale perché sa fare spazio e sa dare tempo. A tutti, accogliendo l’altro così come si presenta, con il suo carattere, il suo carico condizionante. E non un giorno solo… Nel tempo, nella pazienza e nella conoscenza graduale dell’altro e di noi stessi in relazione con l’altro, cresciamo tutti, imparando a portare i “nostri” pesi, restituendo speranza e dignità a coloro che si rivolgono a noi. Si tratta di restituire, non di rendere dipendenti.
- Carità benevola, che quindi agisce per il bene, vede sempre il bene possibile, il vero bene dell’altro, e sa valorizzarlo. Le “scorie” che emergono in superficie, lasciamole consumare nel rapporto personale tra l’altro e Dio, perché non possiamo giudicare la loro genesi, il loro perché. La carità benevola, non buonista, valorizza le situazioni più “bizzarre” o sofferte. È un’esperienza di ricerca sempre aperta, che dilata gli orizzonti: non affannosa (siamo bravi a far diventare tutto affanno), ma fiduciosa nell’azione di Dio.
- Carità che non invidia, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio. E… questo punto riguarda il combattimento interiore! Invidia del bene altrui: un brutto processo distruttivo dal quale nessuno può dirsi esente. Distruttivo, si, che sostituisce l’edificazione vicendevole raccomandata nelle Scritture, col fastidio e la competizione. Paragonabile alla carie delle ossa, corrode e fa crollare la struttura dell’edificio con talvolta perversa maestria. Dal primo Caino in poi, anzi, da Lucifero in poi. Cosa manca a chi non riesce a viverla? Prima di tutto la preghiera che apre le porte alla grazia e alla confidenza con il Padre: e poi, la gratitudine per i doni generosi e gratuiti che Egli elargisce a tutti.
- Carità che non manca di rispetto. Non è una sfumatura leggera: rispettare la dignità dell’altro, saperlo avvicinare con delicatezza, senza pregiudizio o giudizio, senza manipolarlo, non è un atteggiamento scontato.
- Carità che non cerca il proprio interesse. Quindi soddisfazione. Dare la vita significa non trattenere nulla per sé, per egoismo. Gesù insegna la preziosa gratuità che siamo capaci di assumere come virtù nel momento in cui consegniamo tutto al Padre, amando la sua volontà.
- Carità che non si adira. Una rabbia fuori controllo, che diventa schiacciante. Il dominio di sé è un frutto dello Spirito che, invocato con fede e costanza, elargisce i suoi doni e suggerisce come metterli in gioco. Se non è così facile, ordinariamente, ferire il corpo dell’altro, è facilissimo ferire l’altro con le parole.
- Carità che non tiene conto del male ricevuto. Si tratta di saper perdonare. Saper pregare per i propri nemici? Il Signore parla di dare la vita per gli amici, quindi, dove sono i nemici? Sembra che ognuno di noi possegga un hard disk per contenere i dati dei torti ricevuti: è nell’hard disk che prolifera come un fungo, il rancore. Svuotarlo per liberare la memoria, non significa solo dimenticare il torto subito – vero o presunto – ma acquisire la libertà di perdonare sé stessi, come esseri perfettibili e umilmente in cammino.
- Carità che non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità. Che dramma l’ipocrisia! Anche quella che fa restare indifferenti di fronte al male. E qual è la verità di cui dobbiamo compiacerci? Una Persona, Cristo, inequivocabile.
- Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Tutto scusa, custodisce l’altro senza accusarlo o esporlo al giudizio, ma offre possibilità, comunica all’altro: “Tu sei molto di più, sono curioso di conoscerti!”. Tutto crede: crede fino in fondo, fino alla fine nel suo “potere”, anche quando tutto sembra perduto. Lo abbiamo sperimentato tutti: quando riceviamo fiducia, sentiamo davvero una spinta incredibile a dare il meglio di noi. Tutto spera: la speranza che è certezza, legata a Cristo che ci ha salvato. È virtù teologale. Il braccio del Signore si è forse accorciato? Colui che è fedele all’alleanza che ha stipulato con l’uomo, dovrebbe tradirci? Colui che mi ha raggiunto con la sua misericordia? No. Tutto sopporta, non subisce ma sostiene il peso per consegnare a Dio umilmente la fatica nella quale siamo chiamati a crescere, ad imparare ad amare.
- La carità non avrà mai fine (1Cor 13, 4-8). Ma anche nel senso che ci viene esplicitato da San Tommaso: «Infatti la carità non ha un limite di aumento nella natura della propria specie, essendo essa una partecipazione della carità infinita, che è lo Spirito Santo. Parimenti la causa che fa crescere la carità, cioè Dio, è di una potenza infinita. E neppure si può fissare un limite a tale aumento dalla parte del soggetto: poiché col crescere della carità cresce sempre di più l’attitudine a un ulteriore aumento. Per cui rimane che all’aumento della carità non si può fissare alcun limite nella vita presente» (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 24, a. 7).
Cosa ne facciamo oggi di questo elenco? Beh, ognuno, leggendolo, può dare un “ordine personale” di guarigione di ciò che ritiene più difficile vivere nel luogo in cui si è chiamati a rendere il proprio servizio. Come punto fermo, quali che siano le difficoltà locali, restiamo esploratori: alcuni timidi, altri audaci, alcuni principianti, altri maturi di esperienza, comunque ricercatori di Dio che rispondono ad una chiamata nella chiamata.
Sr M. Daniela del Buon Pastore